L'uso cronico della marijuana riduce il volume della materia grigia cerebrale

Fibey et al. hanno pubblicato su PNAS, rivista scientifica della prestigiosa National Academy of Science (USA), i risultati di uno studio clinico condotto su 48 soggetti utilizzatori di marijuana e 62 soggetti di controllo finalizzato alla caratterizzazione delle alterazioni cerebrali associate all’uso cronico della droga. I risultati dimostrano come, rispetto ai controlli, i soggetti che fanno uso cronico di marijuana hanno un ridotto volume della materia grigia nella regione orbitofrontale accanto a complesse variazioni delle connessioni nella stessa regione cerebrale come documentato dall’analisi MRI strutturale e dall’anisotropia frazionale, rispettivamente. L’aumento iniziale delle connessioni nella regione orbitofrontale è seguito da una successiva riduzione dipendente dall’uso acuto o cronico della droga, rispettivamente. Sebbene ulteriori indagini siano necessarie per una migliore comprensione degli effetti sul cervello della marijuana, questo studio dimostra chiaramente la pericolosità dell’uso regolare in giovane età della droga e, pertanto, se ne propone la lettura appena sarà reso disponibile l’articolo completo su PubMed.

Prof Giacinto Bagetta

Approfondimenti

A distanza di qualche settimana dalla conclusione del Congresso Monotematico su “Drug Repurposing and Beyond: the fundamental role of Pharmacology” tenutosi presso l’Università della Calabria, ci piace segnalare ai frequentatori del nostro sito la pubblicazione apparsa su PLOS ONE dal titolo “Repurposing the FDA-Approved Pinworm Drug Pyrvinium as a Novel Chemotherapeutic Agent for Intestinal Polyposis” che documenta come il repurposing è una formidabile lane di nuove idee di ricerca in cui la Farmacologia gioca un ruolo fondamentale.

Buona lettura.

 

Prof Giacinto Bagetta

Emergenza “Resistenza Batterica” e strategie per combatterla.

Studiando la Nobel Prize lecture di Sir Alexander Fleming (Premio Nobel per la Medicina e Fisiologia, 11 Dicembre 1945) è facile comprendere come negli anni venti il concetto di “antagonismo batterico” fosse prevalente rispetto al concetto di “antibiotico”. Testualmente …………….We were all taught about these inhibitions ……….. It seems likely that this fact that bacterial antagonisms were so common and well-known hindered rather than helped the initiation of the study of antibiotics as we know it today. ….

Analogamente, è possibile notare come subito dopo la scoperta della penicillina, praticamente in assenza di dati clinici, Fleming avesse già descritto le proprietà farmacoterapeutiche, compreso lo sviluppo di resistenza. Infatti,……….Penicillin is to all intents and purposes non-poisonous so there is no need to worry about giving an overdose and poisoning the patient. There may be a danger, though, in underdosage. It is not difficult to make microbes resistant to penicillin in the laboratory by exposing them to concentrations not sufficient to kill them, and the same thing has occasionally happened in the body. The time may come when penicillin can be bought by anyone in the shops. Then there is the danger that the ignorant man may easily underdose himself and by exposing his microbes to non-lethal quantities of the drug make them resistant. Here is a hypothetical illustration. Mr. X. has a sore throat. He buys some penicillin and gives himself, not enough to kill the streptococci but enough to educate them to resist penicillin. He then infects his wife. Mrs. X gets pneumonia and is treated with penicillin. As the streptococci are now resistant to penicillin the treatment fails. Mrs. X dies. Who is primarily responsible for Mrs. X’s death? Why Mr. X whose negligent use of penicillin changed the nature of the microbe. Moral: If you use penicillin, use enough…………

Dopo circa settant’anni da quella Nobel lecture, oggi la resistenza batterica agli antibiotici è tra i più impegnativi dei problemi sanitari che la ricerca scientifica deve risolvere. A livello europeo i costi sociali per la resistenza batterica agli antibiotici sono catastrofici. Infatti, si calcola in circa 4.000.000 il numero di pazienti che contrae infezioni correlate al sistema di cure (per esempio, ospedalizzazioni etc.) con una perdita di 25.000 vite umane annualmente e con perdita di risorse per circa 1,5 miliardi di euro.

Accanto al problema relativo alla corretta dose di farmaco da somministrare per ottenere l’effetto clinico desiderato, così come anticipato da Fleming, esistono altri comportamenti umani che, nonostante gli interventi della Commissione Europea e le Agenzie Regolatorie, hanno favorito e continuano a favorire lo sviluppo di ceppi batterici resistenti ai farmaci. Il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie americano calcola che almeno il 73% delle vendite di antibiotici è destinato all’uso veterinario. Attualmente, è in discussione come pratica da abbandonare l’impiego in quel paese di antibiotici nell’industria zootecnica dove animali da reddito sono mantenuti in ambienti ed in condizioni dove la diffusione di infezione da ceppi batterici resistenti è facilitata oltre che rapidissima (vedi allevamenti di polli, maiali etc.). Infatti, in tali condizioni, basse dosi di antibiotici somministrate ad animali sani a scopo profilattico tramite il mangime o l’acqua per lunghi periodi è il modo più rapido di diffondere la resistenza batterica tra gli stessi animali e all’uomo, a partire dagli operatori del settore. Ovviamente, la situazione non cambia, se non per motivi etici, se la somministrazione di antibiotici a basse dosi avviene per promuovere la crescita degli animali. Di recente, il problema sembra essere stato affrontato in maniera decisamente razionale; la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia regolatoria dei farmaci americana, è intervenuta emanando a fine 2012 la direttiva 213 secondo la quale l’uso come promotori della crescita o a scopo profilattico degli antibiotici in veterinaria dovrebbe cessare mettendo fine, apparentemente, ad una discussione che dura dagli anni settanta. Alcuni osservatori commentano che, purtroppo, si tratta di una direttiva della FDA americana e non ancora di un obbligo di legge in quel paese, ed a livello planetario, e ciò sicuramente non aiuta molto a risolvere il problema della resistenza batterica agli antibiotici. Pertanto, accanto alla scarsità di farmaci innovatori in via di ricerca e sviluppo si verifica oggi con sempre maggiore frequenza l’osservazione di gravi infezioni sostenute da ceppi batterici multiresistenti e capaci di formare biofilm impenetrabili ai farmaci disponibili. Ciò rende particolarmente vulnerabili pazienti fragili (v. per esempio, pazienti in terapia intensiva) o predisposti all’uso cronico di antibiotici per essere affetti da patologie che favoriscono le infezioni (v. per esempio, malattia fibroso-cistica).

Nel 2015 saranno pubblicati dalla Commissione Europea i dati relativi agli effetti degli interventi implementati a livello dei paesi membri e di tutta l’Unione Europea sull’uso prudente degli antibiotici ed eventualmente le azioni da intraprendere per migliorarlo.

Intanto, la Food and Drug Administration in collaborazione con il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie e l’Agenzia della Protezione Ambientale americani ha organizzato per il prossimo 20 Febbraio un convegno per discutere di ricerca sui biofilms e l’impatto sulla salute pubblica, unitamente all’impegno industriale, governativo e della comunità scientifica per affrontare il problema.

Sul fronte dello sviluppo di nuovi farmaci, la speranza è riposta nelle poche sperimentazioni attualmente in corso e, principalmente sull’impegno di risorse (compreso il programma Horizon 2020) in questo specifico settore per la scoperta di nuovi targets farmacologici.


Prof. Giacinto Bagetta